venerdì 25 maggio 2012

Riflettendo sui funerali di Stato per Placido Rizzotto


di Giuseppe Oddo
L’avessero detto al mio bisnonno mastro Ciccio il sellaio che, centocinquantadue anni dopo le pubbliche esequie tributate in differita dalla dittatura garibaldina ai resti di Francesco Bentivegna, Corleone sarebbe divenuta ancora una volta teatro di un analogo funerale di Stato
(e per giunta alla presenza delle massime autorità della Repubblica), la buonanima si sarebbe fatto di sicuro ibernare pur di potervi partecipare di nuovo con la bandiera nazionale abbrunata. Ma purtroppo morì di crepacuore nella primavera 1905 e si portò nella tomba il rammarico di aver bruciato la propria vita inseguendo la stessa utopia della libertà e il medesimo miraggio della terra per cui il 10 marzo 1948 il sindacalista Placido Rizzotto fu sequestrato dalla mafia, ucciso e buttato in una foiba della Rocca Busambra, coll’illusoria speranza d’impedirne il seppellimento. Nulla di nuovo sotto il sole, però, neanche per quest’aspetto! Sul fare dell’alba della nostra storia unitaria, un trattamento simile era stato riservato ad altri generosi corleonesi, primo dei quali Filippo Bentivegna, eroe dimenticato e fratello del martire risorgimentale. È vero, il 21 luglio 1851 il ventottenne gentiluomo, secondogenito di don Giliberto (agiato borghese di Corleone) e di donna Teresa Cordova dei marchesi della Giostra, fu ucciso nel carcere palermitano dell’Ucciardone, e non già dai mafiosi, bensì dagli aguzzini borbonici, che lo torturarono a morte e subito dopo lo diedero in pasto ai pesci, nel tratto di mare compreso tra l’arsenale e il forte di Castellammare. (continua)

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