lunedì 17 giugno 2013

A Brancaccio prima di Puglisi: il Vangelo come processo di liberazione


di Rosario Giuè
MARINEO. Quando nel luglio del 1985, di ritorno dai miei studi teologici alla Gregoriana di Roma, il cardinale Pappalardo mi propose di guidare la parrocchia di San Gaetano, nel cuore del quartiere Brancaccio, mi ricordo che eravamo seduti nel suo studio arcivescovile. 
Sul tavolo, l’immagine di un crocifisso. Guardai quell’immagine e dissi a me stesso: «Parlo e scrivo di Chiesa e mafia, di una Chiesa di liberazione impegnata nel territorio, non posso dire di no». E così accettai. Quando a settembre arrivai, insieme ad alcuni provammo a fare un’inchiesta sui bisogni del quartiere. Girammo di casa in casa, sulla base di un formulario. Emersero sentimenti di rassegnazione e di vergogna, misti al desiderio di riscatto e di cambiamento. Essere “di Brancaccio”, nella seconda metà degli anni Ottanta, era vissuto come un triste marchio. Le strade e diverse famiglie di Brancaccio erano state martoriate della guerra di mafia. Era molto difficile sentire usare, in pubblico, la parola “mafia”. Ma in privato non era così. Dare voce alla voglia di riscatto, riprendersi la dignità violata: questo era il modo più concreto per vivere in quel territorio più umanamente e, insieme, testimoniare fiducia e speranza. Sperimentare una Chiesa più povera, credibile e liberante era la via. Non prendere soldi per le celebrazioni delle messe né per altri sacramenti, nonostante le insistenze. Ma cosa altro fare? La prima cosa era costruire una corresponsabilità. Non il prete da solo, ma insieme. Così dopo pochi mesi, tenemmo libere elezioni, con le schede, del Consiglio parrocchiale pastorale. Come parroco non prendevo alcuna decisione importante se prima non fosse stata sottoposta al vaglio del Consiglio. Era la via di una Chiesa meno clericale. (continua)