lunedì 29 luglio 2013

Libri: Rocco Chinnici, un giudice dilaniato da bombe e veleni


di Piazza Marineo
MARINEO. Sui giornali i titoli si somigliavano tutti: ''Palermo come Beirut''. Il 29 luglio 1983, vent'anni dopo la strage di Ciaculli, la mafia riprendeva la tecnica dell'autobomba per chiudere i conti con Rocco Chinnici. 
Strade sventrate, scenari da guerra civile: le stesse immagini che si sarebbero riproposte per l'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che di Chinnici erano stati allievi e amici. La storia di quel giudice, che aveva sfidato gli intoccabili ed era stato straziato dai veleni prima che dalla bomba, è ricostruita dai giornalisti Fabio De Pasquale e Eleonora Iannelli nel libro ''Cosìnon si può vivere'' (Castelvecchi editore, 278 pagine, 18,50 euro). Chinnici era stato il padre del pool antimafia: aveva innovato il lavoro investigativo, messo il naso nei santuari finanziari della mafia e nei forzieri delle banche, raggiunto i livelli più inesplorati del potere mafioso. ''L'intuizione, la modernità di Rocco Chinnici - scrive nella prefazione Pietro Grasso - è aver misurato la temperatura del suo tempo, la virulenza mafiosa degli anni Ottanta, in un contesto di normalità medio-borghese dal quale scaturiva un senso di realismo che legittimava il potere criminale''. Chinnici aveva portato molto avanti le sue indagini sui grandi delitti politici (Piersanti Mattarella e Pio La Torre), sull'uccisione di Peppino Impastato, sul caso Dalla Chiesa e sul ruolo degli esattori Nino e Ignazio Salvo. Aveva messo a fuoco la strategia e la struttura gerarchica di Cosa nostra, si era avvicinato troppo agli ''intoccabili'' e per questo era stato assediato dai veleni e isolato dagli stessi colleghi. Uno spaccato di quel contesto intossicato è ricostruito da Chinnici nei suoi diari nei quali aveva annotato le ostilità ambientali e gli agguati proditori che lo costringevano a parlare di temi scottanti con il procuratore Gaetano Costa, pure assassinato dalla mafia, chiudendosi dentro un ascensore. Il suo lavoro confluì poi nel maxiprocesso. La mafia lo fermò prima che le sue inchieste approdassero in un'aula di giustizia.