martedì 3 settembre 2013

Dalle Province ai Liberi consorzi di comuni: un fallimento annunciato


di Francesco Ribaudo
MARINEO. L’attuale proposta di riordino delle autonomie locali, resa necessaria dalla soppressione dell'ente intermedio Provincia, non sembra essere esaustiva sotto diversi aspetti. 
Intervengo nella speranza di poter dare un modesto contributo di idee al necessario dibattito che deve precedere ogni importante cambiamento. Senza i dovuti correttivi, l’annunciata nascita dei Liberi consorzi di comuni potrebbe, infatti, rivelarsi un fallimento annunciato. Come tutti sanno, la nuova delimitazione delle Città metropolitane assolverà all'esigenza, ormai indifferibile, di politiche di area vasta che mirino al potenziamento e ammodernamento dei servizi pubblici quali acqua, rifiuti, trasporti, comunicazione, informazione, scuole, digitale ecc., con importante impegno finanziario per investimenti da parte dello Stato, della Regione e dell'Unione europea. Nei prossimi anni, l'attenzione e le politiche di sviluppo saranno, in sostanza, concentrate su queste grandi aree metropolitane che si sviluppano intorno alle quindici città italiane più popolate e, dove si stima, vivranno 25 milioni di abitanti. Rimane, invece, incerta se non addirittura aleatoria la sorte delle migliaia di piccoli comuni, sopratutto quelli delle aree intere e di montagna, dove tutto viene lasciato alla libera (ed io mi chiedo se anche consapevole) scelta dei singoli enti, o meglio alla volontà di aggregazione delle singole amministrazioni comunali che potranno associarsi o dissociarsi, in unione o consorzio, senza seguire alcun disegno strategico indicato dallo Stato o dalla Regione di riferimento. L'assenza di una proposta che punti ad aggregazioni per numero di abitanti, omogeneità territoriale, tenendo conto delle economie locali (agricoltura, turismo, artigianato…) e delle vocazioni e peculiarità delle piccole comunità, a mio modo di vedere, rischia di marginalizzare ancora una volta le aree interne. Non riuscendo a fare massa critica, questi territori saranno certamente penalizzati nella capacita di attrarre investimenti pubblici o privati, necessari per lo sviluppo, accrescendo ulteriormente il divario tra costa ed entroterra ed alimentando nuovamente l'esodo verso le aree metropolitane dove, come dicevamo, i servizi saranno sempre più avanzati. Tutto ciò ci fa capire che ci troviamo di fronte a delle scelte di riforma delle autonomie locali che possono essere decisive per il futuro dei nostri territori. L'approccio del legislatore quindi non può e non deve essere legato solo al risparmio che ne potrebbe scaturire dal taglio delle province, che a mio avviso sarà inconsistente. Bensì, dobbiamo fare appello alla capacità di una classe dirigente riformista che, sia a livello nazionale che a livello regionale, dovrà assumersi la responsabilità di una proposta organica di riordino degli enti intermedi che non mortifichi identità, culture e peculiarità territoriali, che sono potenzialità economiche, materia prima per uno sviluppo ancora possibile delle aree interne del nostro paese.